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                Certamente la dimensione della solidarietà era sottesa ad alcuni principi già
             contenuti nella Dichiarazione del 1992 e segnatamente, oltre naturalmente al
             principio n. 3 – «Il diritto allo sviluppo deve essere attuato in modo da soddi -
             sfare equamente i bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e
             future» –, anche al principio 5 in cui già si affermava la necessità di una
             collaborazione non solo di tutti gli Stati, ma anche di tutte le persone allo
             «sradicamento della povertà come requisito indispensabile per lo sviluppo
             sostenibile, al fine di ridurre le disparità dei livelli di vita e soddisfare meglio i
             bisogni della maggior parte della popolazione mondiale». Nel 1992, tuttavia, i
             grandi attori sulla scena dello sviluppo sostenibile erano soprattutto gli Stati e
             si guardava al contributo dei singoli soprattutto come appartenenti a specifici
             gruppi sociali: le donne (principio n. 20), i giovani (principio n. 21) e le «genti
             indigene» e le «altre comunità locali» (principio n. 22).
                La Dichiarazione di Johannesburg, invece, sembrerebbe non solo ribadire,
             ma addirittura enfatizzare e sviluppare il piano della solidarietà tra persone, e
             non solo tra Paesi, evidenziando come il perseguimento dello sviluppo soste -
             nibile non sia questione che deve impegnare i soli Governi, ma la sua piena
             realizzazione richieda un impegno capillare proprio a livello di singoli individui,
             ciascuno dei quali può e deve dare il proprio contributo in quanto ognuno
             beneficia delle politiche di sviluppo sostenibile anche come singolo, proprio
             perché il fine ultimo è la qualità della vita e, soprattutto, la dignità di ciascuno.
                Nel passaggio dalla Dichiarazione del 1992 a quella del 2002, parrebbe
             dunque possibile rilevare una maggiore focalizzazione della dimensione sociale
             dello sviluppo sostenibile, come sarebbe dimostrato non solo dalla particolare
             enfasi dedicata alla dignità della persona di cui di è detto, ma altresì dalla più
             attenta declinazione di quelli che nella dichiarazione di Rio erano genericamente
             indicati come «bisogni» della popolazione (principio n. 5) e che, nel 2002, sono
             espressamente, ancorché esemplificativamente, elencati in «accesso a beni
             primari come l’acqua pulita, la salute, adeguate abitazioni, energia, assistenza
             sanitaria, sicurezza alimentare e protezione delle biodiversità», con specifico
             impegno a «ottenere l’accesso alle risorse finanziarie, beneficiare dei vantaggi
             dell’apertura dei mercati, assicurare la capacità di intervento locale (capacity
             builduing), utilizzare le moderne tecnologie per portare sviluppo, assicurando
             il trasferimento delle tecnologie, lo sviluppo delle risorse umane, l’istruzione e
             la formazione al fine di eliminare per sempre il sottosviluppo», affermazioni
             queste non a caso contenute proprio nel medesimo principio – il n. 18 – in cui
             è solennemente affermata «l’indissolubilità della dignità umana».
                In proposito, dunque, non sembrerebbe troppo forzato sostenere che
             l’emergere del pilastro sociale si accompagna ad una più forte affermazione,
             proprio in questo ambito, della solidarietà umana, aspetto che in precedenza
             (parreva) più sfocato.
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