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             11. La «città culturale sostenibile» dopo l’Agenda 2030

                Nel periodo successivo all’adozione dell’Agenda 2030, il modello di «città
             culturale sostenibile» così disegnato trova conferma anche all’interno della New
             Urban Agenda, che di lì a pochissimo sarà adottata in seno alla Conferenza delle
             Nazioni Unite sugli insediamenti urbani e lo sviluppo urbano sostenibile (Habi -
             tat III), tenuta a Quito (Equador) nell’ottobre del 2016, nonostante l’ampio
             respiro del documento e il punto di vista evidentemente differente (rispetto alle
             due Dichiarazioni di Hangzhou) da cui la questione urbana è affrontata.
                Il Nuovo Programma riafferma, infatti, in generale che «la culture et la diver -
             sité culturelle constituent des sources d’enrichissement pour l’humanité et con -
             tribuent de façon majeure au développement durable des villes, des établis se -
             ments humains et des citoyens, en leur donnant les moyens de jouer un rôle
             actif et irremplaçable dans les initiatives de développement» (p. 10) e, a livello
             specifico, contiene indicazioni particolari in cui viene in evidenza l’intersezione
             delle politiche sul patrimonio culturale colla realizzazione degli obiettivi generali
             di sostenibilità.
                Fin dalla lettura di questa prima affermazione, ma ancor più proseguendo
             nel testo, è possibile evidenziare come, molto più esplicitamente di quanto non
             si legga nell’undicesimo goal dell’Agenda 2030, il patrimonio culturale sia decli -
             nato in senso sia materiale sia immateriale, secondo una prospettiva in cui le
             due dimensioni sostanzialmente si intersecano e non possono essere separata -
             mente considerate. Tra gli impegni finalizzati alla realizzazione di obiettivi di



             interesse, anche in prospettiva generale, F. DEI, Antropologia culturale, Il Mulino,
             Bologna, 2012 (ed ivi, in particolare, il saggio di F. SCARPELLI, Spazio, luogo, città, 217
             ss.). Si legga altresì S. SETTIS, op. cit., 137 «quella che oggi si diffonde è un’altra variante
             di angoscia territoriale, quella di chi resta nei propri luoghi ma non li riconosce più
             perché devastati da mostri di cemento o da altre radicali alterazioni del paesaggio, che
             ne annientano la familiarità. La nozione complementare di dismofobia può essere utile
             a descrivere il paesaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva di una tal
             sofferenza: introdotta nella pratica psichiatrica da più di un secolo, essa definisce la
             gamma di disturbi psichici di chi non accetta il proprio corpo come è, sia perché
             deformato da difetti (per esempio dall’obesità) sia perché vissuto come una foma
             distorta (questa l’etimologia greca di dismorfo). Ma anche la forma distorta della città
             e dei paesaggi provoca sofferenze individuali e disturbi del corpo sociale». Sul punto
             anche K. FABBRICATTI, L. BOISSENIN, M. CITONI, Heritage Community Resilience:
             towards new approaches for urban resilience and sustainability, 2020, in https://www.
             ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7656517/#. Sul significato dell’appartenenza terri -
             to riale e sulla non-neutralità del territorio, cfr. anche S. SICARDI, Essere di quel luogo.
             Brevi considerazioni sul significato di territorio e di appartenenza territoriale, in Politica
             del Diritto, 2003, 115 ss.
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