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116 Cristina Videtta
11. La «città culturale sostenibile» dopo l’Agenda 2030
Nel periodo successivo all’adozione dell’Agenda 2030, il modello di «città
culturale sostenibile» così disegnato trova conferma anche all’interno della New
Urban Agenda, che di lì a pochissimo sarà adottata in seno alla Conferenza delle
Nazioni Unite sugli insediamenti urbani e lo sviluppo urbano sostenibile (Habi -
tat III), tenuta a Quito (Equador) nell’ottobre del 2016, nonostante l’ampio
respiro del documento e il punto di vista evidentemente differente (rispetto alle
due Dichiarazioni di Hangzhou) da cui la questione urbana è affrontata.
Il Nuovo Programma riafferma, infatti, in generale che «la culture et la diver -
sité culturelle constituent des sources d’enrichissement pour l’humanité et con -
tribuent de façon majeure au développement durable des villes, des établis se -
ments humains et des citoyens, en leur donnant les moyens de jouer un rôle
actif et irremplaçable dans les initiatives de développement» (p. 10) e, a livello
specifico, contiene indicazioni particolari in cui viene in evidenza l’intersezione
delle politiche sul patrimonio culturale colla realizzazione degli obiettivi generali
di sostenibilità.
Fin dalla lettura di questa prima affermazione, ma ancor più proseguendo
nel testo, è possibile evidenziare come, molto più esplicitamente di quanto non
si legga nell’undicesimo goal dell’Agenda 2030, il patrimonio culturale sia decli -
nato in senso sia materiale sia immateriale, secondo una prospettiva in cui le
due dimensioni sostanzialmente si intersecano e non possono essere separata -
mente considerate. Tra gli impegni finalizzati alla realizzazione di obiettivi di
interesse, anche in prospettiva generale, F. DEI, Antropologia culturale, Il Mulino,
Bologna, 2012 (ed ivi, in particolare, il saggio di F. SCARPELLI, Spazio, luogo, città, 217
ss.). Si legga altresì S. SETTIS, op. cit., 137 «quella che oggi si diffonde è un’altra variante
di angoscia territoriale, quella di chi resta nei propri luoghi ma non li riconosce più
perché devastati da mostri di cemento o da altre radicali alterazioni del paesaggio, che
ne annientano la familiarità. La nozione complementare di dismofobia può essere utile
a descrivere il paesaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva di una tal
sofferenza: introdotta nella pratica psichiatrica da più di un secolo, essa definisce la
gamma di disturbi psichici di chi non accetta il proprio corpo come è, sia perché
deformato da difetti (per esempio dall’obesità) sia perché vissuto come una foma
distorta (questa l’etimologia greca di dismorfo). Ma anche la forma distorta della città
e dei paesaggi provoca sofferenze individuali e disturbi del corpo sociale». Sul punto
anche K. FABBRICATTI, L. BOISSENIN, M. CITONI, Heritage Community Resilience:
towards new approaches for urban resilience and sustainability, 2020, in https://www.
ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7656517/#. Sul significato dell’appartenenza terri -
to riale e sulla non-neutralità del territorio, cfr. anche S. SICARDI, Essere di quel luogo.
Brevi considerazioni sul significato di territorio e di appartenenza territoriale, in Politica
del Diritto, 2003, 115 ss.