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             e ricomposizione. In breve, i processi e le pratiche di inclusione sociale danno
             luogo a un insieme aperto, per rievocare la chiave ermeneutica dell’apertura
             fondamentale per la comprensione della sostenibilità. Entro lo spazio aperto,
             perché inclusivo, della socialità può dunque realizzarsi non solo il pieno
             sviluppo dei singoli, ma altresì la piena realizzazione di quel noi di cui i singoli
             sono compartecipi. In altri termini, perché l’inclusione sociale possa
             propriamente realizzarsi, occorre che si provveda ad ampliare lo spazio delle
             possibilità a disposizione di ciascuno, mantenendovi aperto l’accesso a tutti. In
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             altri termini, essa si insedia nella pluralità e della pluralità si fa tutrice .
                L’approccio inclusivo dunque procede a una valorizzazione delle differenze,




             biografiche di due motivi concettuali, in La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-
             Bari, 2007, p. 38: «Nell’interno di ogni soggetto si rispecchia qualcosa di esterno»; e
             sulla riflessività del riconoscimento, a S. Cotta, Soggetto umano soggetto giuridico,
             Giuffré, 1997, in particolare, p. 103.
                136  Occorre tuttavia precisare che le pratiche di inclusione sociale si espongono ad
             alcuni rischi: da una parte, l’esclusione propria di una società antropoemica e dall’altra
             l’omogeneizzazione. L’idea di inclusione infatti può determinare un irrigidimento della
             dimensione identitaria, foriero di conflitti, o una sorta di indifferenza verso le specificità
             delle identità, dall’alta potenzialità disgregante; e può altresì dissipare quelle specificità,
             sterilizzando il loro valore, o propriamente sopprimendole. Non è dunque semplice
             rintracciare i confini entro i quali le pratiche inclusive rimangono consistenti con i loro
             obiettivi. Ciò segnala, in un certo senso, la vulnerabilità di questo concetto, di cui
             occorre tenere conto, senza tuttavia rinunciare a identificare i percorsi che ne rafforzino
             l’operatività. In tal senso, appare interessante la proposta teorica della politica della
             diffe renza. Si tratta di una posizione teorica alternativa alle, e in un certo senso conci -
             liativa delle, opposte posizioni riconducibili ai due poli del liberalismo e del comuni -
             tarismo. In termini sommari, e certamente inesaustivi, intorno al primo polo si raccol -
             gono le impostazioni che prepongono l’individuo alla comunità e che riconducono la
             dimensione dell’identità a quella della scelta (preferenze), declinandosi secondo
             politiche della pari dignità, che procedono da un’impostazione neutrale; la prospettiva
             comunitarista, per contro, procede dall’imprescindibilità dell’appartenenza a una certa
             comunità, che definisce le identità producendo gruppi omogenei. (Nell’ampia biblio -
             grafia di riferimento, si rimanda, tra altri, a W. Kymlicka, Liberalism, Community and
             Culture, Clarendon Press, Oxford, 1991). La prospettiva della politica della differenza
             si inserisce in questo quadro (che, ribadiamo, tratteggia solo schema ticamente,
             semplificando, posizioni in realtà assai variegate) intendendo superare sia la neutralità
             cui si appella il primo sia l’assimilazione, che non tiene conto delle differenze interne
             al gruppo, propria del secondo: procede dunque dal riconoscimento delle diffe renze,
             che pone in dialogo. Per una presentazione di questa impostazione si rimanda a I. M.
             Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton,
             1990.
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